Fase2 Emergenza Covid, dobbiamo trasformare l'economia

Non è più rinviabile un discorso di modifica delle strutture economiche in senso ecologico

Il continuo richiamo al vocabolario di guerra per superare l’emergenza pandemica è alquanto fuorviante perché nasconde le radici del problema e le dinamiche socio-economiche che hanno provocato la pandemia. Le radici del problema “emergenza Covid”, infatti, vanno ricercate nel rapporto tra uomo e ambiente, inficiato da modelli economici neoliberisti e dal dominio della tecnica. Innovazione tecnologica e profitto generati da una dissennata competitività, sono i cardini su cui si regge il sistema che ha dominato il mondo ormai globalizzato, condizionando e disegnando la geopolitica entro la quale si sono definite le nuove povertà. Questa, dunque, non è la guerra che conosciamo nella quale possiamo distinguere il nemico in qualcuno che ci somiglia, ma l’approdo di una storia, quella del mondo globalizzato che ha sconvolto gli equilibri naturali sino al punto di consentire la trasmigrazione di virus dal mondo animale a quello umano, ha ridotto le distanze fisiche fra continenti lontani, ha giocato col mito dell’immortalità. Non dobbiamo solo "riconvertire" l'economia in economia di guerra. Pertanto, oltre i luoghi comuni e una narrazione falsificata, occorre recuperare, se vogliamo conoscere in modo adeguato questo rapporto tra pandemia e degrado ambientale, un linguaggio commisurato alla situazione drammatica che stiamo vivendo, prendendo in considerazione diversi punti di vista elaborati da diverse discipline.

Per tracciare una panoramica che ci faccia focalizzare questo rapporto riconosciuto in ambito scientifico ed entrato nel dibattito pubblico soprattutto con “Fridays for future”, la campagna internazionale di Greta Thunberg sull’emergenza climatica, alla quale hanno partecipato tanti giovani di tutte le nazioni, riporterò contributi di diverso taglio conoscitivo che, da prospettive diverse evidenziano la necessità di azioni sistemiche e sistematiche. Non è affatto sufficiente, infatti, chiudere le fabbriche e limitare le attività emissive di anidride carbonica, quando invece si rende necessario “trasformare” l’economia e recuperare un’etica democratica che coniughi gli interessi economici con quelli di una giustizia sociale.

 

A questo proposito, scrive Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano:

La natura dell’emergenza in atto e la continua minaccia della crisi climatica ci inducono quindi a ritenere che le uniche soluzioni sostenibili (nel senso di “accettabili” ma anche “durevoli nel tempo”) sono quelle sistematiche. Per limitare il riscaldamento globale non avrebbe senso limitare semplicemente le attività più emissive: sono invece necessarie soluzioni “positive”, che coniughino la riduzione delle emissioni con lo sviluppo umano di tutti i popoli della Terra. Nel concreto, questo significa compiere una radicale decarbonizzazione della nostra economia, orientando il sistema produttivo, fiscale, economico, finanziario, sociale e politico verso attività compatibili con il mantenimento del clima entro i limiti che favoriscono il benessere umano. E forse è proprio questa l’opportunità più autentica nascosta in questa pandemia. Molte cose dovranno essere ripensate da zero: coglieremo l’occasione per ripensarle in modi nuovi, impostando tutti i settori della nostra società nel senso di una durevole responsabilità climatica e, in ultima analisi, umana?”[1].

 

E Federico Merola, docente Luiss, sul Sole 24Ore:

 

“L’obbligo è quello di promuovere un rapido e profondo ribilanciamento di valori, necessario a risolvere la triplice sfida dinanzi a noi (crisi, pandemia e clima). Futuro, tempo, merito, equilibrio sociale, sviluppo sostenibile, solidarietà, sono categorie che devono trovare posto accanto a quelle che, pur meritevoli, hanno fin qui saturato e distorto tutto lo spazio disponibile. La speranza è che ci sia una risposta rapida, efficace e solidale dell’Ue per affrontare tutte e tre le emergenze, inserendole nel binario della quarta rivoluzione industriale e del green deal. Sarà necessario calibrare bene l’onere complessivo degli interventi tra Ue, Stati nazionali e mercato, valorizzando il contributo degli investitori istituzionali quale nuovo corpo intermedio, cerniera tra pubblico e privato e catena di trasmissione dei principi di investimento responsabili dell’Onu (Esg)”[2].

 

 

In questo contesto, possiamo riprendere il concetto di “globalizzazione” sul quale, entrato nel vocabolario negli anni ’80 per indicare “un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo”[3], si sono spesi fiumi di parole soprattutto per evidenziarne i limiti.

Zygmunt Bauman nel 1998 scrisse un testo, edito in Italia nel 2001 [4], in cui evidenziava come i processi di innovazione tecnologica dettati dalla ricerca affannosa di sviluppo restringessero la vita delle comunità locali, impoverendole della loro diversità. La globalizzazione porta con sé un processo di omologazione che, se annulla le distanze e rende l’informazione “democratica” ovvero accessibile a tutti, d’altra parte allenta la coesione sociale e le identità territoriali. Gli spazi pubblici tradizionali hanno lasciato il posto ai centri commerciali.

 

“…i centri commerciali sono costruiti in modo da far circolare la gente, da costringerla a guardarsi attorno, da tenerla occupata e divertita continuamente – ma in nessun caso troppo a lungo – da ciascuna delle innumerevoli attrazioni; non sono fatti certo per incoraggiarla a fermarsi, a guardarsi a vicenda, a parlarsi, a pensare, ponderare o discutere qualcosa che sia diverso dagli oggetti in mostra: insomma, non a passare il tempo in una maniera scevra da implicazioni commerciali…”[5].

 

Il risvolto etico di questo comportamento è sostanziale per capire le fragilità dell’uomo contemporaneo. Assoggettato al libero mercato e a desideri imposti dalle logiche artefatte del mercato stesso, gli individui perdono quelle potenzialità di valutazione, condivisione, confronto che sono proprie della vita comunitaria, e diventano apatici recettori di chi riesce ad avere potere mediatico.

 

“L’idea di globalizzazione rimanda al carattere indeterminato, ingovernabile e autopropulsivo degli affari mondiali; ancora, fa pensare all’assenza di un centro, di una sala di comando, di un consiglio di amministrazione, di un ufficio di direzione”[6].

 

Alla sempre maggiore richiesta di libertà di scambio e di movimento corrisponde uno svuotamento dei poteri istituzionali nei confronti del mercato.

 

“Grazie alla diffusione indiscriminata e inarrestabile di regole a favore della libertà commerciale e soprattutto della libertà di movimento dei capitali e della finanza, l’economia sfugge progressivamente al controllo politico”[7].

 

Albert Bandura, in ambito psicosociale, studia i meccanismi individuali e collettivi che rendono possibile questo tipo di “permissivismo” che si ribalta in forme di impoverimento e degradazione ambientale e sociale.

I meccanismi del disimpegno morale da lui studiati in ambito della teoria sociocognitiva dell’autoregolazione, spiegano le strategie messe in atto a livello individuale e collettivo per sostenere, giustificandole, azioni immorali che si ripercuotono sull’ambiente con un impatto nocivo e a livello sociale generando nuove forme di povertà. Nel 2016, quando pubblica Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, ritiene che la sostenibilità ambientale sia il problema più urgente che l’umanità debba affrontare. Le sue argomentazioni mostrano come potenti gruppi commerciali siano in grado di usare giustificazioni assolutorie e mistificare azioni di sfruttamento dell’ambiente al fine di omettere ogni responsabilità morale e negare gli effetti nocivi dell’economia di mercato.

Eppure l’irreversibilità dei cambiamenti climatici, nonostante documentari e reportage scientifici a partire dal 2005[8], nonostante azioni culturali e politiche da parte di associazioni e movimenti ambientalisti, comincia a prendere forma nella coscienza pubblica e nei vari protocolli per ridurre l’emissione di anidride carbonica, ma con grandi difficoltà. Il 2 dicembre 2014 Barak Obama di fronte all’epidemia di Ebola scoppiata in Africa occidentale nel dicembre 2013, avvertiva la nazione della necessità di un piano per far fronte a un’eventuale futura pandemia. Nel video che in questo periodo sta imperversando in rete l’allora presidente della Casa Bianca avvisava:

 

Potrebbe accadere che a un certo punto arriverà una malattia che si trasmette attraverso l’aria e che è mortale. E per essere in grado di affrontarla dobbiamo creare un’infrastruttura, non solo nel nostro paese ma in tutto il mondo, che ci permetta di riconoscerla velocemente, isolarla velocemente e rispondere velocemente.  Se avremo fatto questo investimento, tra cinque o dieci anni, quando e se arriverà una qualche forma di influenza, come la spagnola, più avanti saremo pronti a fronteggiarla. È un investimento intelligente da fare. Non è solo una garanzia. È avere la consapevolezza che continueremo ad avere problemi del genere, specialmente in un mondo globalizzato” [9].

 

 Qualche mese dopo, a marzo 2015, Bill Gates prevede lo scoppio di pandemie di fronte a popolazioni inermi perché gli Stati sono scoperti a livello sanitario.

 

“Oggi il rischio più grande di una catastrofe non è più questo. Somiglia invece a questo (indicando una molecola di coronavirus proiettata sul fondo del palco di una grande convention). Se qualcosa ucciderà dieci milioni di persone nelle prossime decadi è più probabile che sia un virus altamente contagioso invece di una guerra. Non missili ma microbi. In parte il motivo è che abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, ma abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un’epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia. … Ma possiamo realizzare un buon sistema di reazione. Abbiamo i benefici di tutta la scienza e tecnologia di cui parliamo qui. … Possiamo avere strumenti quindi, ma devono essere inseriti in un sistema sanitario globale. E bisogna essere pronti. Il miglior esempio, credo, su come prepararsi, è quello che facciamo in guerra. Abbaiamo sempre soldati pronti a partire. E abbiamo riserve per aumentare i numeri. La NATO ha unità mobili da schierare rapidamente. La NATO fa tanti giochi di guerra per controllare: la gente è preparata? Conoscono i combustibili, la logistica, persino le frequenze radio? Sono assolutamente pronti a partire. Sono queste dunque le cose che servono per affrontare un’epidemia. Quali sono gli elementi chiave? Primo, servono sistemi sanitari efficienti nei paesi poveri… Serve un corpo medico di riserva, tanta gente formata, che sia pronta a partire con le competenze giuste. E poi dobbiamo affiancare i militari a questi medici, sfruttando l’abilità dei militari a muoversi velocemente, nella gestione logistica e nella messa in sicurezza delle aree. Dobbiamo fare simulazioni sui germi, non di guerra, per vedere dove sono le lacune. … Infine servono più ricerca e sviluppo nell’area dei vaccini e della diagnostica. … Non ho un badget esatto di quanto potrebbe costare, ma sono sicuro sia molto basso rispetto al potenziale danno. … Questi investimenti offrono benefici significativi oltre alla semplice preparazione alle epidemie. Cure primarie, ricerca e sviluppo ridurrebbero le disuguaglianze in termini di salute globale e renderebbero il mondo più giusto e più sicuro. Credo quindi che dovrebbe essere assolutamente una priorità. Non dobbiamo farci prendere dal panico… ma dobbiamo muoverci perché il tempo non è dalla nostra parte”[10].

 

Nel giugno dello stesso anno sarà il Santo Padre a richiamare l’attenzione sulla crisi ecologica pubblicando l’enciclica “Laudato si’” con la quale riprende con più energia il discorso di Giovanni Paolo II sulla conversione ecologica globale. A questo testo si richiamano molti studiosi e, in particolare, sia Bandura che Gaël Giraud[11].

 

Un’ecologia che, nelle diverse dimensioni, integri il posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circonda”[12].

 

Papa Francesco evidenzia in modo particolare lo stretto collegamento esistente tra degrado ambientale e degrado umano:

 

“L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale”… “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”[13].

 

Per Papa Francesco l’ecologia ha un carattere “integrale”, ovvero comprende vari aspetti connessi e interdipendenti: è ecologia ambientale, umana, economica, sociale, culturale, quotidiana. L’ecologia umana ha un profondo carattere morale, inseparabile dal concetto di “bene comune” che include il rispetto della persona umana, l’affermazione della famiglia come cellula primaria della società, la promozione della pace sociale, l’appello alla solidarietà, l’opzione preferenziale per i più poveri, la ricerca del bene delle generazioni future[14]. In questo contesto, tra le linee guida indicate dal papa rivestono una funzione prioritaria il dialogo e la trasparenza nei processi decisionali contro favoritismo e corruzione, il valore della politica come attività umana che non deve sottomettersi all’economia così come l’economia non deve sottomettersi agli interessi dell’efficientismo tecnocratico. Politica ed economia – sottolinea Papa Francesco – deve porsi al servizio della vita e specialmente della vita umana.

 

“Uno sviluppo tecnologico e economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso”[15].

 

La riflessione del Papa mira alla formazione di una nuova prospettiva che miri a “recuperare i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con se stessi, quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio.

 

L’educazione ambientale dovrebbe disporci a fare quel salto verso il Mistero, da cui un’etica ecologica trae il suo senso più profondo”[16].

 

Se dal punto di vista cattolico il comportamento ecologico globale è imperniato sulla spiritualità che ci proviene dal mistero della Trinità è soprattutto per l’ascendente che esercita San Francesco e al quale, non a caso, s’ispira Papa Francesco. Un riferimento che permette di superare il tradizionale pensiero moderno fondato sul dominio dell’uomo sulla natura e che, pertanto, offre una via alternativa al modello economico attuale.

Che sia possibile trasformare l’economia con una vera e propria svolta paradigmatica ne sono convinti Serge Latouche, economista e filosofo della “decrescita felice”[17], che ha criticato il concetto stesso di “sviluppo sostenibile”, e il movimento di Maurizio Pallante[18] che intervengono nel dibattito pubblico già dai primi anni del 2000, e da coloro che elogiano la lentezza, recuperandola come valore alternativo alla velocità, simbolo di consumismo e competizione.

Da oltre vent’anni Roberto Mancini, docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata e formato alla scuola di Karl-Otto Apel, s’interessa su come sia possibile agire in modo efficace per cambiare il sistema egemonico liberista. Si tratta di tracciare le linee di un’etica della dignità e del bene comune capace di ispirare un progetto politico di democratizzazione sia dell’economia che della società nel quale non venga soffocata la componente spirituale umana.

 

“In passato il potere era organizzato attorno alla religione, poi attorno alla politica, oggi attorno all’intreccio tra finanza, tecnocrazia, mediacrazia, burocrazia e sistema geopolitica. Stiamo assistendo agli spasmi della modernità come epoca dei poteri globalizzati. […] Ormai ovunque nel mondo molti hanno imparato che siamo una sola umanità sulla stessa terra. E hanno imparato che le vere possibilità e l’efficacia dell’azione vengono non dal potere, ma dalla cura, dal servizio, dal governo democratico dei problemi, dalla libertà solidale e responsabile. Se prevarrà questa coscienza corale, allora potrà farsi strada la coralità, l’epoca corale”[19].

 

In un testo del 2014, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, edito da Franco Angeli, Mancini analizza le possibilità di un recupero di azioni democratiche che possano agire in modo sistemico attraverso tre direttive che ha individuato nella svolta spirituale, in quella culturale e politica e nella svolta metodologica, per poter ribaltare l’economia dominante in un modello socio-economico fondato sulla “giustizia restitutiva”. Si tratta, dunque, di

 

“risollevare la democrazia per trasformare l’economia da scienza della prevaricazione in arte della giustizia, la giustizia che non abbandona nessuno al suo destino”[20].

 

In questa logica di interconnessione tra uomo e natura in cui l’impatto economico determina, da un lato, disastri ambientali e, dall’altro, situazioni di grave ingiustizia sociale, si è sviluppata già dal 2000 una teoria, quella sviluppata dal premio Nobel per la chimica Paul Jozef Crutzen, che indica con il termine “Antropocene” la nuova era geologica caratterizzata dall’impatto su scala planetaria delle attività umane e dalle relative alterazioni della composizione e delle funzioni del sistema Terra. L’alterazione degli equilibri naturali messa in moto dallo sviluppo progressivo del capitalismo e dalle conseguenze della rivoluzione industriale testimonia la trasformazione “della nostra specie da semplice agente biologico a forza geologica”.

Un fenomeno, il fenomeno, più significativo del secolo, tanto da originare una nuova era geologica, che vede compromessa la biodiversità, ma che soprattutto trasforma il soggetto uomo (quello che con la modernità era homo faber e poi soggetto titanico, infinito) in un fenomeno oggettivo, in un oggetto naturale. Un passaggio di qualità che rende presente “l’intrusione di Gaia” (di cui parla Isabelle Stengers) quale soggetto terzo, agente politico, concatenamento materiale indifferente che trascende la storia della natura e la storia umana creando una situazione inedita in cui l’uomo moderno, da homo sapiens e homo faber, non è più capace di scelta. In questa situazione non si può usare la retorica della guerra. Occorre invece trovare una “composizione” perché l’uomo ha perso, appunto ogni capacità di scelta, sia individuale che collettiva se permane entro la logica di mercato[21]. E “composizione” vuol dire interagire con l’ambiente recependone i limiti di saturazione, ascoltandone il respiro e le variazioni che sfuggono allo stesso controllo tecnologico. Un segnale di questa composizione può essere colto dalla percezione della bellezza, valore estetico ed etico nello stesso tempo che rifiuta sfruttamento e richiama invece alla solidarietà e alla condivisione dei beni.

Questa prospettiva evidenzia quanto sia sbagliato continuare nella logica di mercato e dei processi industriali soprattutto ora che ci sentiamo catapultati in un mondo orrendo e che sembra stiamo attraversando l’Acheronte. Bisogna invece trasformare l’economia con opportune politiche a basso impatto ambientale.

 

In conclusione, per uscire fuori da questa condizione di “disordine mondiale”[22] in cui ci ha trovati impreparati il Coronavirus non basta intervenire rallentando le misure di distanza o chiudendo per un breve periodo industrie e rimandando ad una ripresa degli stili di vita e a valori misurabili sul Pil delle nazioni, ma occorre agire con una vera e propria conversione dell’economia globale innanzitutto riducendo l’inquinamento da fonti fossili (gas, carbone, metano, petrolio, nucleare, combustioni di alberi e rifiuti) e passando all’uso delle energie rinnovabili da fonti pulite (solare, fotovoltaico, eolico, idroelettrico, geotermico) disponibili da tanto tempo sia come corrente elettrica fornita in rete che come produzione in proprio da pannelli fotovoltaici, ripensando allevamenti in forma diversa da intensivi e attivando strategie di riciclo e recupero dei materiali inquinanti come la plastica. Il progresso possibile non può identificarsi con lo sviluppo economico neoliberista misurato dal Pil, perché prevede una prosperità diversa. Una sfida difficile, l’unica possibile.

 

Francesca Rennis

 

 

 



[4] Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza9, Roma-Bari 2006

[5] Ivi, p. 30

[6] Ivi, p. 67

[7] Ivi, p. 75

[8] Una lista di tali documentari è reperibile nella pagina https://movieplayer.it/articoli/film-documentari-ambiente-migliori-da-vedere_21679/

[11] Gaël Giraud, economista e direttore di ricerche al CNRS di Parigi, oltre che gesuita, è teorico della necessità di una “transizione ecologica” verso un’economia post-carbone. E’ critico soprattutto per quanto riguarda il potere finanziario di cui dispongono le banche, colpevoli di affondare l’economia europea. Vedi  https://www.laciviltacattolica.it/articolo/per-ripartire-dopo-lemergenza-covid-19/ e https://www.youtube.com/watch?v=MdnIpGiV-lo

[12] Papa Francesco, Laudato si’, Shalom Ed., Camerata Picena, Ancona 2015, n. 15

[13] Ivi, nn. 48-49

[14] Ivi, nn. 156-162

[15] Ivi, n. 194

[16] Ivi, n. 210

[20] Roberto Mancini, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, Franco Angeli, Milano 2014, p. 295

[21] Paolo Bartolini – Roberto Mancini (a cura di), L’amore che salva. Il senso della cura come vocazione filosofica, Mursia, Milano 2019, pp. 54-60

[22] Termine usato da Kenneth Jowitt all’indomani dell’abbattimento del muro di Berlino