Intrusioni nella poesia dialettale. Ciccio de Rose

I versi di Cantu ‘ntuòssicatu e Asulìa tu ca mi s’i frati

 

Le radici dei suoi versi e il suono che emanano sanno di terra, conducono ad un sentire immediato perché originario, gettano coni di luce sull’identità calabrese. Ciccio De Rose dice di sé di essere "crisciutu 'mmienz'a vìa ", da dove trae energia poetica sapendo cogliere nell’immagine il pathos della vita quotidiana, la fatica di un fare che, in tempi lontani dal nichilismo etico, potevano tradursi con la parola “onestà”. E se la globalizzazione ci ha imposto un confronto poco idilliaco con la diversità, Ciccio De Rose recupera il sentimento del “parlar materno” come spazio esistenziale non contaminato in cui, tuttavia, è possibile rintracciare il senso della comunità, oltre che la critica all’omologazione culturale, a quella forma di appiattimento comportamentale in cui si liquificano sentimenti e memoria.

(…) Quantu ricriju e chi sucu/ supr’a chianta mangiari ficu,/ ‘nu cerasu, ‘nu granatu,/ azzardari ‘a sc-cuppettata.

Mo ‘i tiempi ‘su cangiati:/ carrelli e supermercati,/ mi sientu ‘nu cugliuni/ quann’accattu panettuni.

Tiempu passatu,/ t’amu minatu,/ t’amu vinnutu,/ e tu s’i fujiutu! (Tiempu passatu, p.142, 2006)

E ancora:

(…) Doppu tant’anni/ ‘i murettu,/ cantina e trissetti,/ àmu dittu basta/ a baruni e sc-cuppette./ Mò fravicamu patruni,/ a chi ‘ni dicia teruni/ curtiddrati e sc-caffettuni.

Dintr’a quartieri/ tutti ‘guali/ àvimu casi popolari,/ ‘i fimmini nostri/ nun ricuglianu

acqua ara funtana/ e ‘cnucun ‘ni proija/ puru ‘a manu. (Mastravòta, p. 138, 2006)

 

Ai quadretti di vita s’affianca sempre una riflessione che sfocia nell’ironia. E lo sguardo del poeta non riesce a districarsi da questa visione innovativa in cui l’osservazione s’intreccia ad una domanda di comprensione. L’esito è sempre scanzonato, anche se oscillante fra ardite sentenze ed espressioni dallo slancio patetico. Un esempio ne è la poesia “Simu pueti” tratta dalla raccolta “Asulìa tu ca mi s’i frati” (p. 23, 2010)

(…) A ogne angulu di via/ sienti strusciu di puisia/ te vidau e ccu ‘na scusa/ te parranu d’a loru Musa.

Pua, senza ca ti ‘nn’adduni, / ràpanu ‘nu ‘ranni burzuni, / te projanu ‘a mercanzìa/ e cchi lijei, arrassusìa! Pueti, comunitari/ nun si po’ cchiù caminari!

 

Eppure senza l’uso del dialetto il risultato empatico, incisivo, realistico non sarebbe lo stesso. Lo spiegava bene Pier Paolo Pasolini in un testo del 1951, Dialetto e poesia popolare, in cui afferma “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. L’eredità antropologica sedimentata nel dialetto, vive nella dimensione del paese e della comunità in cui tutti si conoscono e tutti conoscono tutto di tutti. Un tentativo di ripercorrere le tracce lasciate da Pasolini e per questa osmosi tra identità e voce dialettale De Rose riesce a penetrare anche il senso del suo narrare. E al lettore attento non può sfuggire la carica inquieta, la ribellione e l’indignazione per un mondo inquinato da una perdita di cura verso le persone e le cose, dai tanti tradimenti dei diritti umani, dalla presenza della mafiosità. Ricordi e versi “senza nessuna pretesa”, eppure esulano dalla chiacchiera per restituirci una narrazione ancorata alla memoria.

 

Una narrazione che si presenta come specchio in un continuo interloquire con la realtà contemporanea, persa nello scetticismo. Qui e ora trova il suo senso. E così il suo diventa “Cantu ‘ntuòssicatu”. Una storia privata, narrata con i versi, che ripercorre un racconto già noto (“Il canto dell’odio” di Lorenzo Stecchetti) di amore e odio, suggerisce il titolo della raccolta del 2006. Non è solo il dialetto a venire mortificato dalla modernità, ma anche i vissuti e le sofferenze che solo la lingua madre può esprimere senza artefici. E le relazioni, le affettività, le parentele che sottendono un modo di vivere percorso da conflittualità, inganni, sfruttamenti. Ne emerge un dialogo continuo con la donna, quella della tradizione patriarcale che ha mediato stereotipie e caratteri di genere. Non è difficile rintracciare tra una riga e l’altra, in entrambe le raccolte ma soprattutto in quella più recente, la presenza di Duonnu Pantu, così come di Ciardullo. La satira assume toni aspri e per la tradizione non può esserci via di scampo nel restituire una prospettiva al maschile sui ruoli femminili. E non dobbiamo meravigliarci se, mantenendo questo punto di vista, De Rose punta il dito verso quella femminilità che non rientra nei canoni tradizionali della donna-figlia-moglie-madre riuscendo con efficacia a restituirci una mentalità ancora preminente. Da “Principessa” e “Reginella a “disonesta”, “pajònna”, “fimmina perduta” e “fimmina muderna”, trasgressiva ed egoista, simile ad una “trupìa”, che “m’ha fattu ‘u cuoppu”.

 

L’emancipazione stessa viene compresa come una rivalsa sul maschio, costretto a fare la spesa o a rinunciare a sogni di sensualità per andare a gettare il sacchetto dei rifiuti. E sono I nostri matri/ni misiru u munnu/ e ni sdirrubbaru/ nta carceri funnu. (2010, p. 32) Chiave di lettura della ricerca linguistica e antropologica di questo Poeta dialettale, versi molto significativi dal punto di vista della formazione e del senso d’appartenenza, spirale da cui è difficile fuoriuscire e nodo scorsoio di libertà. “Matri” in definitiva è una contraddizioni in termini in quanto rappresenta la porta della vita e nello stesso tempo la morte per forme di esistenza diverse da quelle che lo stesso linguaggio materno trasmette con naturalezza.

Nel dialetto, pertanto, potremmo rintracciare non l’ultima sopravvivenza di ciò che è rimasto di puro e incontaminato, come voleva Pasolini, ma, oltre l’immediatezza dell’espressione, la sopravvivenza di un mondo che tenta di reificarsi mantenendo status e simboli che trovano nella tradizione, non solo la loro giusta collocazione, quanto la loro stessa legittimazione. Ma anche valori irrinunciabili come l’onestà, la solidarietà, la caparbietà di mantenere libertà e dignità umana.

Solo con queste premesse è possibile comprendere come l’interlocutore possa essere appellato col nome di “frati”. Un fratello, quello cui s’appella nella seconda raccolta ( p. 143), cresciuto all’ombra di questi valori, al quale si chiede di ascoltare all’interno di un dialogo di comprensione e mutua accettazione, raccomandazioni di vita che riportino ad uno stile di vita fondato sul rispetto reciproco e sull’emancipazione da sudditanze e illibertà.

(…) Tu ca mi s’ì frati/ asulia/ sulu ppi carrini/ abbannuna ‘u lamentu/ guarda la forza/ di li to ‘vrazza/ libera ‘u figliu/ di la notti/ di lu viziu.

Asulia/ tu ca mi s’i frati/ non rispunnari/ all’ubbidienza/ fa curra sangu/ ppi ra via/ nun diri cchiù/ “vussurrìa”.

 

Francesca Rennis

 


Cantu ‘ntuòssicatu, Soveria Mannelli, Iride Ed. gruppo Rubbettino, 2006

Asulìa tu ca mi s’i frati, Cosenza, Nuova Santelli, 2010