"Liberandisdòmini" dalla "maffia" e dal personalismo

Il testo di Pantaleone Sergi costruito su un idioma che lega passato e modernità

Incuriosisce il titolo di questo testo edito da Pellegrini che orienta il lettore a ricercare nel testo le ragioni di una tale scelta. Una frase idiomatica in una crasi-fusione, una mescolanza di tre parole consecutive capaci di esprimere un determinato concetto.  Un concetto che l'autore con grande dimestichezza e originalità riesce a esprimere nei suoi molteplici significati. Un idioma arcaico che vale anche ai giorni nostri, quando si sente il peso del potere come una sventura che incombe sulla quotidianità. E questa ricostruzione si percepisce soprattutto quando recupera le basi antropologiche che favoriscono l'ascesa del fenomeno mafioso nella piccola realtà contadina di Mambrìci allo scoccare del secolo XX. Un romanzo, calato nella storia calabrese, che apre una porta sull’antropologia meridionale.

Si sentono l’influsso dell’antropologo Ernesto De Martino e di autori calabresi come Corrado Alvaro e Leonida Répaci, ma l’accento viene posto su un microcosmo che, capiamo, è lo specchio di una Calabria che ripresenta come un déjà vu relazioni di potere asfittiche. 

 

Leggendo non possiamo esimerci dal considerare la storia in termini posti dallo storicismo crociano, che coglie la contemporaneità di ogni storia esprimendo un interesse verso la vita presente con il tentativo di illuminarne l’oscurità. Leggendo non possiamo chiederci se siamo ancora così.

 

Mambrìci è l’emblema irreale di situazioni reali, rintracciate tra gli archivi di giornali d’epoca, ma lo spaccato che l’autore ci presenta viene collocato in un climax, in una scala crescente, di episodi che dalla stagnazione e dal “qui non accade mai niente” finiscono col far implodere su se stesso il paese. Forse l’esito scontato di realtà in cui manca un progetto politico finalizzato a tutelare il bene pubblico? Forse che quell’oscurità non porta con sé ombre nel presente?

E nel titolo c’è forse anche un doppio senso: dominus viene infatti indicato “il magnifico sindaco cavaliere e ingegnere Florindo, conte di Villaforesta e duca di Lumignano, nobile erede dell’antica casata Belforte che da secoli si era insediata su queste terre” (p. 19). A voler dire - ci fa pensare - che l’invocazione liberandisidomini era rivolta ad un dio in terra, padrone e burattinaio che non pensava mai di poter essere contrastato.

 

 

Percepiamo nel testo un “oltre” non detto. Si racconta la potenza degli eventi e la forza della natura (il kratos), l’immensa potenza del negativo che incombe sugli individui; l’ethos rimane sullo sfondo, compare negli affetti familiari e nelle relazioni genuine o in personaggi positivi che cercano una via d’uscita razionale alle difficoltà. Lascia aperta, comunque, la domanda sull’ethos, sulle capacità comunitarie di superamento del principio individuale; predominano personaggi autoreferenziali, che pensano di gestire il territorio tirando i fili delle persone come marionette. Ma su questi si erge la penna ironica dello scrittore che riesce a evidenziarne i caratteri grotteschi e goffi. La scrittura assume effetti ironici e scanzonati, lettura diventa scorrevole capace di strappare ilarità. Ma il racconto non diventa mai completamente distaccato, indifferente, impassibile, perché si percepisce il tono lieve ma veemente dell’autore anche per l’uso che ne fa dei termini dialettali, ricercati e posizionati al punto giusto.

 

 

Nell’assise dei personaggi importanti di un paese senza importanza, una seggiola di diritto toccava, non c’è dubbio alcuno, al colto arciprete della Matrice, professore don Andrea Musciacca, che si cibava di ostie e letture classiche, sbrigava messa in un amen e teneva il fervorino  domenicale – le sue parole sull’inferno per i peccatori oltrepassavano furiose la balaustra schiaffeggiando gl’impauriti fedeli – in una mescolanza di dialetto e lingue antiche, cosa alquanto stravagante anche per le mangiasanti che emanavano un puzzo di piscio e sacrestia e non si perdevano una funzione in chiesa ma erano astemie di greco e latinorum. (p. 20)

 

I vari episodi sono legati da un modello comunicativo fondato sul chiacchiericcio, non sul dialogo democratico (la malattia di donna Letizia, il passato del marchese Campitelli, la bambina-scimmia…), sulle invidie tra prelati, sull’arrivismo e forme di aggregazione massoniche tese a controllare il territorio per mantenervi il potere affinché lo status quo non cambi. Il cambiamento, se proprio deve esserci, deve seguire i canoni gattopardeschi del «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». In questo quadro i passaggi dettagliati che descrivono la nascita e la crescita sociale e politica del “maffioso” rappresentano l’apice di questo romanzo, ne accompagnano prerogative e drammaticità.

 

Sottofondo di questa realtà intrisa di cultura contadina, la religione che assume caratteri magici e tratteggia quegli aspetti metafisici che prendono forme in rituali, scongiuri, giaculatorie e profezie. È il mondo del libertandisdomini, appunto, che esprime forme di angoscia e il senso di una catastrofe imminente. Quelle stesse che si esprimono nel pianto funebre e nel tarantismo al quale accenna a pp. 166 (il farmacista De valle tarantolato dalla curiosità) e 231 (Federico nel giorno del matrimonio sembra morso dalla tarantola).

E proprio la magara Mela reciterà il suo arcaico liberandisdomini (p. 59) che ricompare con tutta la sua irruenza tragica nella catastrofe finale (p. 272). Arcaico perché pratica rozza di magia cerimoniale che assolvono ad una funzione protettiva, catartica, e perché si contrappone, in una Calabria in cui esplode il problema del latifondo, all’idea di modernizzazione e di progresso al quale richiamano alcuni personaggi come Federico rivolti a risolvere le ingiustizie sociali tra proprietari terrieri e contadini poveri. Ma la civiltà moderna, a Mambrìci così come nella Calabria reale, si affossa nel destino irrazionale e incontrollabile, di fronte al quale non ci sarebbe altro da fare che invocare un rappresentativo liberandisdomini se non ci fosse questa tensione verso un’assenza (quasi a ricordarci l'attesa di Godot nel teatro dell'assurdo di Samuel Beckett) che si fa sentire ovvero quella di un’eticità, sconosciuta a Mambrìci, ma per noi stessi ancora tutta da sperimentare. 

 

Ma queste sono solo suggestioni, il romanzo si legge tutto d'un fiato perché rincorre fatti che si succedono affascinandoci. Il ritmo incalza al punto tale che la fine stessa richiama a nuovi eventi. 

 

Francesca Rennis