Le poesie di uno dei maggiori letterati del Novecento italiano su Germania e Olanda dopo lo Sterminio, tratte dalla sezione Apparizioni e incontri del testo Gli strumenti umani.
Poesie proposte da Manuela Magurno nella sua tesi di Laurea Lettura de "GLI STRUMENTI UMANI" di Vittorio Sereni, UniCal, A.A. 2006-2007
Vittorio Sereni, poeta e letterato tra i più significativi del secondo Novecento, accoglie nella sua terza raccolta poetica, Gli strumenti umani (1965), tre liriche sull’olocausto: Dall’Olanda, La pietà ingiusta e Nel vero anno zero. Esse affrontano il tema della Shoah e del ricordo, con riferimento al modo in cui lo sterminio ebraico e i lager agiscono, con il loro orrore non obliato, sul presente, in Europa, Germania compresa, che tende a rimuovere il suo passato, sommergendolo in un’inesauribile vocazione per i traffici e i commerci, da cui si aspetta un riscatto, che sarebbe però, ove concesso, indulgenza eccessiva («pietà ingiusta»).
Dall’Olanda
Amsterdam
A
portarmi fu il caso tra le nove
e le dieci d’una domenica mattina
svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra
lungo il semigelo d’un canale. E non
questa è la casa, ma soltanto
– mille volte già vista –
sul cartello dimesso: «Casa di Anna Frank».
Disse più tardi il mio compagno: quella
di Anna Frank non dev’essere, non è
privilegiata memoria. Ce ne furono tanti
che crollarono per sola fame
senza il tempo di scriverlo.
Lei, è vero, lo scrisse.
Ma
a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale
continuavo a cercarla senza trovarla più
ritrovandola sempre.
Per questo è una e insondabile Amsterdam
nei suoi tre quattro variabili elementi
che
fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi
tre quattro fradici acerbi colori
che quanto è grande il suo spazio perpetua,
anima che s’irraggia ferma e limpida
su migliaia d’altri volti, germe
dovunque
e germoglio di Anna Frank.
Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.
L’interprete
«Adesso tornano. Floridi, chiassosi
pieni zeppi di valuta.
sono buoni clienti, non si possono respingere.
Informazioni, quante vogliono.
Non una parola di più. Non si tratta
di rappresaglia o di rancore.
Ma d’inflessibile memoria».
Volendam
Qui acqua cent’anni fa
– ripeteva la guida Federico –
oggi polder.
Vita
tra polder e diga, qui c’è posto
per la procreazione solamente
e la difesa della morte. Questo
dicono le facce arrossate dal freddo
fuori dalla messa cattolica
a Volendam, la nenia
del
vento volubile tra i terrapieni.
L’amore è di dopo, è dei figli
ed è più grande. Impara.
Dall’Olanda si divide in tre parti (Amsterdam, vv. 1-26; L’interprete, vv. 27-33; Volendam, vv. 34-46), e si configura come tre soste di uno stesso percorso attraverso la città di Anna Frank e una località di pescatori (Volendam), nei suoi immediati dintorni.
Il viaggio del poeta inizia da Amsterdam, «insondabile», «vertiginoso» agglomerato urbano, che si specchia nei suoi canali e moltiplica il suo volto urbanistico (e i suoi « tre o quattro fradici o acerbi colori») nell’acqua, al pari dei ricordi che vi si legano.
Casualmente, egli trova un cartello che segnala l’abitazione della giovane ebrea (deportata a Bergen Belsen e morta, in quel lager, a quindici anni) e si porta, attraverso un dedalo di ponti e di vie d’acqua, davanti a quella casa. Qui ha modo di dialogare col suo compagno di viaggio sull’importanza della memoria, che non è soltanto quella «privilegiata» di Anna Frank, che ha potuto scrivere un diario sul suo dramma, ma anche quella di quanti «crollarono per sola fame», senza lasciare alcuna traccia su carta. Su tutte queste vittime anonime della violenza nazista si «irraggia» l’anima della giovane, che il poeta perde e trova in ogni canale, come un riflesso («germe dovunque e germoglio») dei “sommersi”, di cui parla Primo Levi.
Nella seconda parte, come dimostrano le virgolette che incorniciano il discorso diretto, la protagonista è una giovane interprete che fornisce un quadro a tinte fosche dei clienti tedeschi (buoni pagatori, pieni di valuta, pingui e rumorosi), a cui ella fornisce «informazioni» a volontà, ma senza slancio e senza altre aggiunte verbali, perché la memoria non può avere cedimenti di fronte all’orrore nazista («Non una parola di più. Non si tratta/di rappresaglia o rancore. Ma d’inflessibile memoria»).
Il viaggio tocca infine Volendam, città strappata al mare con dighe e successivo prosciugamento del terreno («polder»), dove ora viene garantita la continuità della vita «e la difesa della morte». E il vento si fa, in questo caso, latore di un messaggio di un amore « di dopo», che appartiene ai figli, e sarà «più grande» di quello dei padri, che recano le ferite ancora sanguinanti di una storia terribile.
La pietà ingiusta
Mi prendono da parte, mi catechizzano:
il faut
faire attention, vous savez.
Et surtout si l’affaire
Doit marcher jusq’au bout,
ne causez pas de ces choses bien passées.
Il paraît qu’il en fut un, un SS
qu’il a été même dans l’armée
quoique pas allemand…
Ecco in cosa erano
forza e calma sospette
l’abnegazione nel lavoro, la
cura del particolare, la serietà
a ogni costo, fino in fondo…
Intorno c’è aria di niente, mani
sulla tavola, armi (chi le avesse)
al guardaroba: solo adesso
si comincia a capire - e l’affare un pretesto
il pranzo un trucco, una messinscena
benché non esistano dubbi sulle portate
benché non ci siano orripilanti cataste sulla tavola né sotto
- ma in cucina, chi può dirlo?,
ah le dotte manipolazioni di cui furono capaci,
matasse, matassine innocue, oro a scaglie
da coprirne un deserto di sale, di nubi d’anime
esalanti-esulanti da camini
con la piena dolcezza degli stormi d’autunno
altre anche meno visibili spazzate da una raffica in un’ora di notte-
è una questione d’occhi fermi sul cammello che passa
e ripassa per la cruna in piena libertà –
e con tocchi di porpora una città
d’inverno, una città di cenere si propaga
dentro una lente di mitezza.
Solo adesso si comincia a capire.
Incredibile – dirò più tardi – le visioni
immotivate che si hanno a volte
(e pazienza per queste
ma esserne coinvolti al di là del giudizio
fino al tenero, fino all’indebita pietà …):
le giubbe sbottonate della disfatta, un elmo
ruzzolante tra i crateri, sugli argini maciullati
facce su facce lungo un canale a ridosso di un muro
un reparto in sfacelo che si sbraca, se ne fotte
della resa con dignità, ma su tutte
quella faccia d’infortunio, di gioventù in malora
con la sua vampa di dispetto di bocciato
di espulso dal futuro
nell’ora già densa della campagna
verso l’estate che verrà …
Tra poco apparecchieranno, porteranno
le cartelle per la firma. Si firmerà.
Si firmerà la pace barattandola con la nostra pietà –
e lui rimesso in sesto, risarcito di vent’anni d’amaro
bene potus et pransus arbitro dell’affare.
Non si vede più niente. Se non - per un incauto
pensiero, per quel momento di pietà - quella mano
quel mozzicone di mano sulla parete.
Ci conta ci pesa ci divide. Firma.
E tutti quanti come niente - come la notte
ci dimentica.
La Pietà ingiusta presenta, nei versi iniziali, un invito (in francese) alla cautela e al riguardo nei confronti di un ex componente delle SS, che si accinge a firmare un contratto commerciale con il protagonista della lirica. Trattandosi di un buon affare, è opportuno non urtare suscettibilità personali, rivangando il passato.
Il poeta però non può accettare che, in nome del profitto, si rimuovano le colpe e le responsabilità storiche. I crimini nazisti non possono essere occultati sotto una chiazza d’inchiostro, che compare sul foglio di un contratto. Non bisogna lasciarsi intenerire («esserne coinvolti fino al giudizio / fino al tenero, fino all’indebita pietà») neppure dalla disfatta dell’esercito tedesco e dalla sua ritirata disonorevole («le giubbe sbottonate della disfatta, un elmo / ruzzolante tra i crateri, sugli argini maciullati /facce su facce lungo un canale a ridosso di un muro / un reparto in sfacelo che si sbraca, se ne fotte / della resa con dignità»): la memoria non può essere cancellata, perché le atrocità commesse dai nazisti, la loro aberrante difesa della razza, il fumo dei camini, affiorano anche davanti alla tavola imbandita per il pranzo di lavoro («un trucco»), per l’«affare» da realizzare («ah le dotte manipolazioni di cui furono capaci, / matasse, matassine, oro a scaglie / da coprirne un deserto di sale, nubi d’anime / esalanti-esulanti da camini…»).
Il risultato finale sarà la rivincita dello sconfitto della storia, che porterà a termine la sua missione finanziaria («Si firmerà. / Si firmerà la pace barattandola con la nostra pietà - / e lui rimesso in sesto, risarcito di vent’anni d’amaro / bene potus et pransus arbitro dell’affare» ), ma nel frattempo si è cominciato a capire la strategia messa in opera dal contraente tedesco («L’abnegazione nel lavoro, la / cura del particolare, la serietà / ad ogni costo, fino in fondo…»). La notte distenderà, poi, un velo d’oblio su uomini e affari.
Nel vero anno zero
Meno male lui disse, il più festante: che meno male c'erano tutti.
Tutti alle case dei Sassoni - rifacendo la conta.
Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato.
A mangiare ginocchio di porco? Mai stato.
Ma certo, alle case dei Sassoni.
Alle case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c'è di strano?
Ma quante Sachsenhausen in Germania, quante case.
Dei Sassoni, dice rassicurante
caso mai svicolasse tra le nebbie
un'ombra di recluso nel suo gabbano.
No non c'ero mai stato in Sachsenhausen.
E gli altri allora - mi legge nel pensiero -
quegli altri carponi fuori da Stalingrado
mummie di già soldati
dentro quel sole di sciagura fermo
sui loro anni aquilonari … dopo tanti anni
non è la stessa cosa?
Tutto ingoiano le nuove belve, tutto -
si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore.
A balzi nel chiaro di luna si infilano in un night.
Nel vero anno zero è ambientato a Sachsenhausen, o «Casa dei Sassoni», quartiere di Francoforte sul Meno, dove si tiene una famosa Fiera del libro, ma dove fu allestito anche il primo campo di concentramento, nel 1933.
Il poeta, funzionario della Mondadori, partecipa all’evento e intreccia presente e passato, partendo dall’«ombra di un recluso nel suo gabbano» (nella divisa, cioè, di prigioniero) che i locali festosi dell’esposizione evocano in lui. Il dialogo tra l’io lirico e un «festante» compagno tedesco, che cerca di vantare le magnificenze culinarie del luogo e il grande accorrere di visitatori, introduce l’accenno «a quegli altri carponi fuori da Stalingrado», i tedeschi periti nella guerra di Russia (dal 1942 al 1943), durante una terribile disfatta. Egli vuole così pareggiare i crimini di Hitler e quelli di Stalin.
Il testo richiama, per il titolo, un film di Rossellini, Germania anno zero (1948), e ripropone le stesse tematiche dei racconti sereniani L‘opzione (1964) e Il sabato tedesco (1980).
L’epilogo ribadisce la ferocia delle «onnivore bestie» del nuovo capitalismo tedesco, che vorrebbero mangiare «cuore e memoria», azzerando il passato sotto un’onda di cinico perbenismo.